«Siamo poeti poveri
fatti di vesti pesanti
e intime calure di bosco,
siamo contadini che portano
la terra a Venere»
Alda Merini, Poeti, 2000
Questo spazio espositivo è così chiamato per la sua localizzazione a lato della chiesa parrocchiale. La prima delle due sale che lo compone è quella dedicata al lavoro della terra, cioè della campagna, dove la fine dell’inverno segnava l’avvio delle attività agricole. Fino agli anni ’50-’60 il paese disponeva di tutta una distesa di campi intercalati da filari di alberi da frutta e vite. Si coltivavano i cereali e le varietà orticole adatte al clima locale. La prima fase dei lavori riguardava la preparazione dei terreni tramite la concimazione. A questo proposito – e in base all’antica sapienza del “non si butta via niente” – si utilizzavano le latrine dei pozzi neri familiari: il contenuto veniva scaricato in una botte di forma ovale, la bunza, successivamente portata a destinazione da un carro trainato da buoi. Una volta depositato, si lasciava al terreno il tempo di assorbire il concime lasciandolo riposare prima della semina. Per lavorare la terra si utilizzavano aratri o attrezzi manuali.
L’aratro, come si sa, è nato in tempi antichissimi dal perfezionamento della zappa, per dissodare e rivoltare la terra. Il suo utilizzo è legato alla geomorfologia del territorio, all’assetto pedologico (cioè allo studio dei terreni dal punto di vista geologico e agrario) e a fattori storico etnografici. Data la struttura degli attrezzi, l’aratura interessava i primi 30-40 cm di suolo e non poteva procedere a maggiore profondità, ma le moderne tecniche agro-ecologiche hanno avvalorato questa modalità di lavorazione del suolo, suggerendola, accanto alla semina diretta, come buona pratica per la conservazione della fertilità dei suoli. Dalle testimonianze raccolte da tutta una serie di interviste sono emersi racconti di coltivazione di cereali quali segale, avena, orzo, frumento, mais e miglio in piccoli lotti di terra, in consociazione con ortaggi stagionali. La segale veniva coltivata come varietà invernale, seminata come ultima coltura tra settembre e ottobre e raccolta in primavera. È una semente tipica di zone temperate, in grado di sfruttare l’umidità invernale per la crescita, con buona tolleranza alle gelate invernali. L’avena era seminata a inizio primavera e raccolta entro la tarda estate: veniva destinata soprattutto ai cavalli. Il mais, coltivato in abbondanza, era seminato anch’esso in primavera e agli inizi dell’autunno. Cereale caratteristico della cucina prealpina, è il classico ingrediente della polenta. Il momento del raccolto si tramutava sempre in occasione di festa. Si andava a mietere in squadra, accompagnando il ritmo dei gesti con canzoni. Gli attrezzi agricoli utilizzati erano la falce delle messi, detta mesura, e un’altra falce a manico lungo. I mietitori erano sia uomini che donne e lavoravano disposti in file: con una mano afferravano gli steli dei cereali e con l’altra impugnavano l’attrezzo. Con un gesto netto e preciso, che richiedeva attenzione e destrezza, recidevano una fascina dietro l’altra. I covoni ottenuti venivano legati e portati nei cortili per le successive lavorazioni. Si utilizzavano tutte le parti dei cereali: dalla spiga si estraevano le cariossidi e del resto della pianta veniva fatta paglia utilizzata nelle stalle. Alla mietitura seguiva la trebbiatura, nell’aia aperta dei cortili, percuotendo le spighe al suolo con il correggiato, un attrezzo composto da due aste di legno, una più lunga e una più corta, collegate da una solida cordicella o da una correggia di cuoio. Il trebbiatore impugnava l’asta lunga mentre la corta oscillava dal lato opposto: il colpo rafforzato della parte superiore distaccava il grano dalla pula.
La tecnica del correggiato permetteva di trebbiare fino a 200 kg di grano in 10 ore lavorative se effettuata da un operatore esperto. A lavoro terminato, per un’ulteriore operazione di pulitura dei cereali si utilizzavano crivelli o ventilabri. Il ventilabro, noto già ai tempi di Omero, consisteva in una pala di legno con cui si lanciavano in aria con un abile gesto le cariossidi facendole ricadere sullo strumento mentre le piccole impurità venivano allontanate dall’aria. Come scrisse Manzoni ne Il conte di Carmagnola: “Il grano lanciato dal pieno/ Ventilabro nell’aria si spande”. I crivelli, invece, aiutavano a selezionare i chicchi in base a volume, peso e forma.
“Per secoli i contadini e la gente comune mangiava solamente ciò che seminava e lavorare la campagna era un lavoraccio che teneva impegnati tutto l’anno. D’inverno si doveva dare il letame ai campi. Lo si faceva con la bonza (…) cosicché i paesi ‘profumavano’, ma allora erano odori naturali e nessuno ci faceva caso. (…) Dove non si arrivava con il carro si doveva andarci con la brenta sulle spalle, che era come una gerla a doghe in legno (…), la si copriva con cenere che fungeva da stabilizzante.
In primavera si vangava. Un’altra attività da matti, da spaccarsi la schiena e le braccia. Chi ce l’aveva usava un aratro attaccato ad una vacca, e chi poteva si pagava i buoi che rendevano di più. Si piantava in ogni terreno e appezzamento in campagna, nelle radure di montagna e nei giardini perché più si produceva e meno si sarebbe patito la fame. (…). Preparato il terreno si seminava. Si piantava di tutto: frumento, orzo, segale, fagioli, piselli, cornetti, verze, cipolle, pomodori, insalata, cetrioli, eccetera, ma maggiormente granoturco e patate. Durante la guerra si metteva anche lino e canapa e, di nascosto, qualche pianta di tabacco. Era obbligo guardare le fasi lunari per evitare che i prodotti andassero in canna e diventassero immangiabili, così si seguiva la norma secondo la quale i prodotti che salivano dovessero essere messi in luna calante e quelli che scendevano nella terra in quella crescente. C’erano poi date stabilite per seminare alcuni prodotti come le patate al 25 aprile, i fagioli il 3 maggio per Santa Croce, il mais al primo udire del cuculo. Era anche regola che fagioli, cornetti e altri rampicanti in frasca si mettessero in capo al campo. Terminata la semina la campagna andava seguita: si doveva strappare l’erba crescente, fare i solchi dove servivano, diradare le nuove piantine, ridurre i rametti di pomodoro, irrorare la dorifora col disinfestante. (…) Quando i raccolti erano maturi si coglievano ed erano una festa. Il più difficile era zappare le patate, da non tagliare sennò si dovevano dare agli animali. Dopo c’erano molti sistemi e procedimenti per conservare vari prodotti ma questo lo racconteremo un’altra volta”.
Tratto dal testo Urin di temp indrè, Comune di Orino, 2019.
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