C’era una volta… ‐ Un re! ‐ diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio, 1910
Dalle testimonianze di cultura materiale si comprende che nel saper fare è racchiuso un passato di conoscenze profonde e che la manualità va considerata a tutti gli effetti parte della sfera più raffinata della civiltà. In particolare di quella contadina, dove l’artigianato, prima di essere una professione, era parte integrante del quotidiano. In ogni abitazione non mancavano mai gli strumenti basilari per l’autocostruzione e la manutenzione.
Nella bottega del falegname era sempre presente il banco da lavoro di legno massiccio, dotato di morse verticali sui due lati dove si fissavano i pezzi in lavorazione. L’artigiano costruiva da sé o adattava gli attrezzi e per lavorare finemente il legno utilizzava pialle, sgorbie e scalpelli da percuotere col mazzuolo per asportare e scolpire piccole parti di legno. Nella progettazione dei manufatti impiegava vari strumenti con differenti funzioni: graffietti, compassi, squadre. La cavra era una sorta di panca dotata di un robusto braccio mobile di legno che consentiva di mantenere fermo il pezzo in lavorazione. Stando seduti alla cavra, si potevano decorticare tronchi, smussare le superfici del legno, rifinire gli angoli. Il legname d’opera veniva preparato per le lavorazioni di precisione, sagomandolo con vari tipi di sega. Si utilizzava quella a lama libera, per compiere tagli di forme anche curve, e quella a corda, il refendin, per preparare tavolati di legno.
Sull’importanza della cultura materiale, che vede protagonista l’uso della mano, hanno scritto pagine memorabili la pedagogista Maria Montessori e lo storico dell’arte Henri Focillon: La mano è lo strumento espressivo dell’umana intelligenza: essa è l’organo della mente (…). La mano è il mezzo che ha reso possibile all’umana intelligenza di esprimersi ed alla civiltà di proseguire la sua opera. Nella prima infanzia la mano aiuta lo sviluppo dell’intelligenza e nell’uomo maturo essa è lo strumento che ne controlla il destino sulla terra. (Maria Montessori, La scoperta del bambino, 1950).
Tra la mano e l’utensile ha inizio un’amicizia che non avrà fine. L’uno comunica all’altro il suo calore vivo e continuamente lo plasma. Quando è nuovo, l’utensile non è ‘fatto’; bisogna che tra esso e le dita che lo impugnano si stabilisca un accordo formato di appropriazione progressiva, di gesti lievi e coordinati, di abitudini reciproche e anche di una certa usura. Allora lo strumento inerte diventa una cosa viva.
(Henri Focillon, Elogio della mano, 1939).
È proprio da questi presupposti che si è sviluppata negli ultimi decenni l’Ecopedagogia, a cui naturalmente si ispira anche l’Ecomuseo di Orino (insieme all’Ecoturismo teorizzato nel 1988 dall’architetto ambientalista messicano Hector Ceballos-Lascurain). Il termine “ecopedagogia” è stato coniato nel 1992 dal pedagogista brasiliano Paulo Freire, che, sviluppando quanto espresso nel suo testo fondamentale La pedagogia degli oppressi (1971), propone come alternativa alla vecchio tipo di insegnamento calato dall’alto, nozionista e standardizzato un’educazione esperienziale fatta non solo di attività all’aperto e a contatto con la natura, ma capace di stimolare in massimo grado la creatività, avviando quindi alla critica e alla comprensione degli strumenti principali a disposizione per cambiare le sorti del mondo (ivi compresa la riscoperta degli attrezzi di una cultura come quella contadina, considerata ingiustamente “inferiore”). Un progetto educativo, rivolto soprattutto alla nuove generazioni, finalizzato ad affrontare concretamente i problemi del reale e della quotidianità con l’azione, la creatività e il dialogo per andare verso una crescita sostenibile, fondata sul rispetto per la natura, i diritti umani universali, la giustizia economica e una cultura della pace. In questo contesto l’Ecomuseo si pone come opportunità:
– valorizzare la “cultura del fare”, che oggi è un atto necessario in quanto offre agli individui la possibilità di riappropriarsi delle esperienze che hanno contribuito a sviluppare l’intelligenza umana attraverso il lento processo di “ominazione” (il complesso dei processi evolutivi che hanno condotto alla specie umana);
– riaprire botteghe e laboratori perché significa riportare al centro dell’esperienza umana la creatività, tornando a “far andare le mani” per intrecciare cesti, filare la lana, raccoglier patate e lavorare il legno in quanto atto di riappropriazione della propria storia, cultura e abilità.
Tessendo a telaio, così come realizzando un manufatto in falegnameria si può vivere la storia, la matematica, la geometria. In questa prospettiva l’educatore e l’educando compartecipano a una scoperta che mette l’individuo e le sue potenzialità al centro. Si attiva la neurofisiologia del cervello, i neuroni a specchio, principali responsabili dei meccanismi di apprendimento, che avviene per imitazione. In meno di un secolo il nostro modo di usare le mani è profondamente cambiato, ma proprio sono proprio le recenti scoperte delle neuroscienze a confermare il ruolo cruciale delle mani nell’apprendimento anche e specialmente in un’epoca che si definisce “digitale”.
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