Secondo rilievi paleobotanici ed archeologici, alla fine del Terziario il genere Malus era distribuito in numerosi areali con forma simili a quelli selvatici ora esistenti. Il genere Malus è ormai scomparso dalla flora siberiana ma ritrovamenti fossili in Siberia occidentale testimoniano della presenza di M. obensis risalenti alla preistoria.
Lungo il Danubio esistevano fin da 6.500 anni a.C. forme selvatiche di melo utilizzate da Illiri e Celti e coltivate nei territori che oggi corrispondono all’Austria. I Celti coltivavano questa specie in foresta mentre i Druidi consideravano il melo un albero sacro, come la quercia. In quasi tutta Europa sono state ritrovate tracce della presenza del melo nei villaggi palafitticoli, a testimonianza del suo uso nell’alimentazione in tempi preistorici e come componente dei paesaggi di allora. In Svizzera, Austria, ma anche in Svezia, sono stati rinvenuti frutti tagliati in due e conservati, essiccati, come provviste per l’inverno di M. sylvestris, mentre nei villaggi palafitticoli di Emilia-Romagna, Lombardia, Francia (Savoia) sono stati ritrovati in abbondanza semi di melo che testimoniano l’esistenza di alberi o arbusti selvatici ma anche, in prossimità delle abitazioni, di gruppi di piante coltivate. Le funzioni dei frutteti e dei meli, in particolare nelle diverse civiltà, vanno ben oltre quelle meramente produttive. In Egitto, nel XII sec. a.C., piante di melo, durante il regno del faraone Ramsete II, abbellivano i giardini sul delta del Nilo, mentre Ramsete III offriva mele in gran quantità ai sacerdoti di Tebe per le loro offerte.
Il primo dato archeologico attendibile inerente alla coltivazione del melo risale al X Secolo a.C. nel territorio israeliano tra il Sinai e il Negev. Questa località, al di fuori dell’areale di origine, fa ipotizzare un primo esempio di coltivazione con irrigazione. La melicoltura era nota a greci e italici a partire dall‟800 a.C.; i testi greci e latini ne parlano diffusamente. Teofrasto (323 a.C.) descrisse 6 varietà di mele e indicò le cure colturali, tra le quali l’innesto indispensabili per ottimizzare la fruttificazione. Descrisse anche come la semina diretta desse normalmente frutti di qualità inferiore. Infatti, la moltiplicazione per seme non offre la possibilità di riprodurre piante con le stesse caratteristiche della pianta madre. Ancora oggi si ricorre alla tecnica dell’innesto, combinando due bionti, per unire la varietà prescelta, detta nesto, cioè la porzione aerea della pianta, al portinnesto, l’apparato radicale. Il quadro varietale in epoca romana descritto da Plinio era piuttosto ampio: le varietà di mele descritte erano numerose, pur includendo altre piante come gli azzeruoli e i cotogni (per similitudine nella morfologia del frutto). Durante il primo periodo della dominazione Romana i fruttiferi vennero coltivati nell’hortus, piccola proprietà contadina, in un’economia di autoconsumo. Nel periodo successivo, nei giardini della “villa urbana, concorsero con le piante ornamentali per creare una sorta di paradiso terrestre. Nei terreni declivi e meno produttivi, come il bosco e il prato naturale, si reperivano frutti selvatici, legno, selvaggina e erba per il pascolo di ovini e caprini. La decadenza che segue alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, si manifestò in un’agricoltura povera, autarchica, al limite della sussistenza. Fatta eccezione per la rivoluzione agricola islamica, che tanto incise sull’agricoltura siciliana, nel resto della Penisola la frutticoltura medioevale si limitò agli orti dei monasteri o ai giardini dei castelli fortificati, protetta dai danneggiamenti degli animali o dalle incursioni di nemici. Nei giardini patrizi medioevali le piante da frutto ebbero un forte valore decorativo.
Le numerose varietà di mele coltivate nel Medioevo furono la base della selezione rinascimentale; nei giardini, tra il 1500 e il 1600, iniziò lo studio pomologico delle cultivar.
Nei secoli dell’Umanesimo prima e del Rinascimento poi, accanto ai fruttiferi tradizionali si introdussero specie esotiche, sulla spinta dell’interesse per il collezionismo botanico legato alla scoperta di nuove terre e di nuovi continenti. Il rinnovamento culturale che investì l’agricoltura dell’Europa del Settecento si può leggere, in Italia, soprattutto nelle ville e nelle tenute di principi, nobili ed ecclesiastici che detenevano in proprietà gran parte delle terre. Il paesaggio agrario si riorganizzò, laddove la geomorfologia del territorio lo consentiva, in grandi aziende che impiegarono capitali non più solo per opere di abbellimento e di fasto ma ai fini di un vero e proprio investimento produttivo. Sorsero Accademie Scientifiche e di Agricoltura che concorsero attivamente a diffondere l’istruzione tecnica e conoscenze agronomiche e avviarono le prime sperimentazioni in frutticoltura. Negli orti botanici si collezionarono, si sperimentarono e si diffusero nuove specie e riguardo al melo, molte varietà di allora, sono giunte fino ai giorni nostri. Sorsero i primi vivai nei quali vennero allevati nuovi fruttiferi, si stamparono i primi cataloghi che illustravano gli assortimenti varietali e nei vivai stessi vennero impartite nozioni di tecnica agronomica ai coltivatori. La frutticoltura restò per lo più di tipo familiare e le produzioni, spesso eccellenti, erano dovute più alla rusticità delle cultivar e all’ambiente quanto mai vocato che alle tecniche colturali. Nella seconda metà del 1800, con l’unificazione dell’Italia, il migliorare delle condizioni economiche e il progredire dei mezzi di trasporto, la domanda di frutta aumentò. L’impiego di macchine operatrici, le nuove conoscenze scientifiche, la formazione di tecnici del settore, permisero di soddisfare le nuove richieste e iniziò, anche se timidamente e relegata per il momento solo all’Alta Val d’Adige (territorio dell’Impero Austro Ungarico), la frutticoltura su larga scala. La melicoltura di quegli anni rimaneva per lo più promiscua, le piante venivano innestate su portinnesti franchi, molto vigorosi (perché le piante devono superare i 50 anni di età) e venivano allevate a pieno vento. Lasciate sviluppare liberamente assumevano grandi dimensioni e contribuivano a delineare il paesaggio unico e particolare della melicoltura estensiva. La frutticoltura si espanse e si sviluppò ulteriormente negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale.
La melicoltura del primo dopoguerra era localizzata soprattutto nella Pianura Padana e sull’Arco Alpino; negli anni ’50 il primato produttivo era detenuto dall’Emilia-Romagna, seguita dal Trentino-Alto Adige e dal Veneto e, a distanza, da Campania e Piemonte. Lentamente, però, nel ventennio successivo, la melicoltura si spostò verso le regioni alpine e il Trentino-Alto Adige divenne la prima regione melicola italiana, primato che detiene tuttora.
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